I misteri delle acque di Timau

La pala del diavolo, ai Laghetti di Timau

Risalendo la Valle del Torrente Bût (Alpi Carniche) e superando il paese di Timau ecco che si raggiunge la località Laghetti, collocata a ridosso della statale che conduce al Passo di Monte Croce Carnico.

Ai Laghetti vi consiglio una sosta per osservare una particolarità davvero singolare.

Dando le spalle alla giogaia dei Monti Cogliàns, Collina e Collinetta, fermate per un istante lo sguardo sulle pareti rocciose verticali che incombono alla vostra sinistra.

La rupe della pala del diavolo osser- vata dalla spianata allu- vionale dei Laghetti.

La rupe della pala del diavolo osser- vata dalla spianata allu- vionale dei Laghetti.

La più scoscesa tra tutte, su in alto, porta impressa un’inconfondibile sagoma in rilievo. È quella di una gigantesca pala, indicata da secoli come la pala del diavolo.

E quando c’è il diavolo di mezzo le storie si fanno intriganti e promettono emozioni. Storie o leggende che siano. Nel nostro caso elementi veri si mescolano a situazioni verosimili e presunte realtà, in un intreccio che nel suo dipanarsi di cause ed effetti apparirà comunque sempre logico e coerente.

Gli elementi concreti, reali e documentati sui quali si avvolge e poi dipana questa vicenda non sono pochi.

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Particolare della figura precedente nel quale, lungo la parete verticale al centro dell’immagine, si riconosce la pala del diavolo

Attingono dalle cronache, dalla toponomastica e dai caratteri del territorio. Sono rispettivamente la presenza di una forma su roccia che a tutti appare come una gigantesca pala e un ampio movimento di rocce e detriti, la frana del Masareit, attivo da moltissimi secoli; un lago che non c’è più e che in epoca storica occupava una zona denominata, non a caso, Laghetti; una notte illuminata da un quarto di Luna; la completa distruzione di Timau quale effetto diretto della tracimazione del lago stesso, avvenuta nelle prime ore del 29 ottobre 1729 quando il paese risultava ancora edificato di fronte al Fontanone, in sponda fluviale destra; la rapida ricostruzione del paese in sponda sinistra, a quote di sicurezza rispetto alle piene del Torrente Bût.

Quanto ora sto per raccontarvi – la leggenda della pala del diavolo - l’ho appreso da un manoscritto che ebbi la sorte di ritrovare una decina d’anni fa nel sottotetto della vecchia Scuola Elementare di Timau. Un edificio ormai diroccato e fatiscente che visse momenti di servizio e di gloria a beneficio di chi – io tra questi – a Timau frequentò quella scuola durante l’infanzia.

La costruzione, oggi pericolante e devastata dal tempo e dall’incuria (Fig. 3), è stata purtroppo abbandonata a un destino inglorioso che non si sarebbe meritato. Ma anche in questo caso non è mai detta l’ultima parola. So di un progetto di ri- strutturazione datato 2009. Il tempo, forse, ci riserverà sorprese e soddisfazioni.

Il manoscritto in questione, celato in un piccalo incavo ricavato nel punto di connessione tra due travi maestre, si compone di sei fogli di carta color avorio, originali del diciottesimo secolo (anche se – ne sono consapevole – il dato da solo non ne prova l’autenticità). Sono scritti a mano con inchiostro nero, su una sola facciata.

I sei fogli riportano una storia narrata in prima persona e firmata soltanto con una cifra: 1729. Per Timau questo è l’anno della completa distruzione ma, al tempo stesso, anche della sua inaspettata e rapida rinascita.

Del manoscritto intendo riportare la versione integrale. Non mancherete certo di notare come la scrittura del documento sia moderna e assolutamente non rispondente ai canoni di inizio settecento. Anche questo particolare, apparentemente stridente, risulterà al contrario perfettamente coerente con l’intera vicenda che sto per presentarvi.

Quanto segue dunque, fin dal titolo, riporta fedelmente il contenuto dei sei fogli di di cui si compone l’antico manoscritto risalente – non ho più dubbi in proposito – alla prima metà del XVIII secolo.

La pala del diavolo

Da sempre ho voluto capire le cose. Il desiderio di conoscere è stato per me una specie di molla sempre carica, capace di proiettarmi ad osare l’indescrivibile pur di comprendere, o perlomeno di raggiungere la convinzione, labile e momentanea, di avere compreso.

È stato così anche per il disastro di Timau, quello che le cronache collocano nel 1729. Per l’esattezza nelle prime ore del 29 ottobre 1729. Un paese completamente distrutto nel rapido volgere di una sola notte di tragedia. Una sorta di Vajont che non avrebbe dovuto o potuto, nella logica di quanto accaduto, lasciare scampo ad alcuno dei quasi quattrocento abitanti dell’antica Timau.

Eppure le cronache raccontano che il paese risorse, immediatamente, ad opera di quegli stessi abitanti che, a ragion veduta, avrebbero dovuto trovarsi sotto metri e metri di detriti o trascinati per chilometri dentro un fiume di fango in una notte di improvvisa e rapida tragedia.

Volendo a tutti i costi comprendere, c’era solo un modo per farlo. La scienza del XXI secolo mi ha concesso quest’opportunità. Con un unico svantaggio: sarei potuto arrivare sul posto e controllare di persona, ma non avrei potuto, in nessun modo, tornare indietro (anzi, avanti nel tempo) per riferire.

Considerai che il non-ritorno sarebbe stato solo uno spiacevole dettaglio, ma nulla più di un dettaglio. La priorità per me era comprendere. Non chiedevo altro. L’ideale sarebbe stato giungere nella Timau del XVIII secolo a qualche giorno almeno dal disastro.

Mi ero sufficientemente attrezzato (vestiario e lingua) in modo che il mio arrivo fosse considerato quello di un semplice foresto, ma nulla di più. Avrei osservato e compreso per me stesso, ripromettendomi di stilare un preciso resoconto degli eventi per coloro che, un lontano domani, l’avessero trovato e voluto leggere. Il progresso della tecnica dava garanzie sufficienti ri- guardo all’anno prescelto, difettava però ancora in merito al giorno stabilito.

Tutto per me ri-comincia da un imprecisato istante dell’anno 1729. Risalgo con circospezione il greto del Torrente Bût, in destra idrografica, lungo la via romana d’un tempo. Oltrepasso la Stretta di Timau e curvo verso ovest. In lontananza scorgo dei lumi e un picciolo fuoco di stoppie che nella luce tenue dell’imbrunire mi indica la mèta: Timau.

Scelgo di bussare a una delle tante umili abitazioni, la più distante. Per raggiungerla attraverso il paese serrato intorno alla sua chiesa in muratura, segno dell’appartenenza solida ad una comunità. Conto almeno una cinquantina di edifici distribuiti su parecchi ettari di prati e campi. Siamo in destra Bût, di fronte alla Creta di Timau, dalla forma di fantasma in roccia che mormora incessante attraverso la voce del suo Fontanone.

Mi accoglie ed ospita una famiglia modesta che vive di quel tanto, anzi quel poco che offre un terreno disseminato di ghiaia, arrotondato con gli occasionali proventi che le derivano da sporadici traffici di prodotti locali (tessuti e utensileria) condotti attraverso l’impervio tragitto che porta al Passo di Monte Croce Carnico. Semplicemente il Passo per la gente di Timau, ultimo avamposto prima di un ripido strapiombante sipario di rocce.

Seduto a tavola, all’imbrunire – che da queste parti, incassate nel fondovalle, anticipa il suo orario – mangio insieme a chi così generosamente e discretamente mi ha accolto senza chiedermi nulla. Formaggio, patate e… gustosi pesci. Chiedo se sono stati pescati nel vicino Torrente Bût, convinto di aver centrato la risposta. «No - mi raccontano con gli occhi che si illuminano – c’è un posto che chiamiamo il ‘paradiso delle trote’. Non è molto distante da qui, a nemmeno 20 minuti di agile cammino verso monte. Si tratta di un lago che – raccontano i nostri vecchi che l’hanno appreso dai loro nonni – si è formato nel volgere di una stagione e da allora ha continuato a sfamarci».

Le trote, abbrustolite su una rudimentale griglia, sono ottime, ma il mio pensiero adesso è tutto rivolto al lago. La notte si dilata preannunciando l’alba successiva e l’attesa mi riempie di impazienza.

Vorrei essere già lassù, sul bordo di quel lago ‘mai visto’ per osservare, valutare, comprendere. Non è un caso che io mi sia fermato nel 1729. E non è un caso che io abbia scelto proprio la zona di Timau, dove anch’io sono nato… oltre due secoli dopo!

Questa che ho ritrovato è la più antica Timau. Un agglomerato di case che è rappresentazione di una miscela tenace di etnie locali e d’oltralpe unitesi qui nel XVI secolo a formare un unico solido ceppo destinato a durare nel tempo. A durare nel tempo, per questo oggi sono qui. Per capire come la furia della devastazione incombente ha potuto risparmiare chi è riuscito a far risorgere l’intero paese, completo e quasi intatto nei suoi tradizionali cognomi bavaresi del millecinquecento: Muser, Matiz, Plozner, Ebner, Mentil,… È la cronaca di quel lontano indimenticato 1729 a chiamarmi indietro, verso il passato.

Sta sorgendo il sole. Salgo veloce la vecchia strada romana che porta al lago, anzi ai Laghetti, come la gente del posto ha battezzato quel segmento di valle. La foschia del mattino di colpo si fa più fitta e la sua impenetrabilità tradisce la presenza di una consistente massa d’acqua. Ecco che all’improvviso mi trovo affacciato sul suo bordo più estremo.

Per raggiungerlo, nell’ultimo tratto di salita, ho dovuto arrampicarmi sopra un ammasso di detriti, blocchi e frammenti minuti che si fa propaggine stessa del versante alla mia sinistra. Conosco l’intima ragione di quell’accumulo che da se- coli periodicamente deforma, distrugge e seppellisce un tratto della via romana che porta al Passo.

Un ammasso detritico che due secoli dopo diventerà per tutti la frana del Masareit. Questa frana è la ragione stessa dell’esistenza del lago e del toponimo Laghetti che lo consegnerà alla storia. È anche la ragione della mia presenza in questi luoghi e in questo tempo. Per osservare in diretta, per valutarne il rischio concreto, per comprendere come limitare le potenziali perdite.

Due ore più tardi la foschia si dissolve e il lago si fa specchio sotto e di fronte a me. Intanto, non senza difficoltà, ne ho percorso l’intero perimetro. La sua forma è stretta e allungata. Non più largo di trecento metri l’invaso copre, in lunghezza, quasi due chilometri di valle, chiudendosi lì dove i Rii Monumenz e Collinetta si innestano nel fondovalle, ben oltre i ruderi della Casetta in Canadà.

Il giro esplorativo, effettuato tra le nebbie in lento dissolvimento, giustifica la scelta di chi ha denominato la zona Laghetti. A metà del lago, sul versante che conduce verso Casera Lavareit, ho notato un’ampia zona scoscesa scavata dall’erosione. Nel XXI secolo è rivestita dalle propaggini più occidentali del Bosco Lavareit. Nel XVIII secolo è roccia esposta (il libro scuro intimamente fratturato, ndr) sulla quale intuisco, incessante e attivo, l’effetto delle piogge battenti.

I frammenti di roccia convogliati verso il lago hanno finito col formare un ven- taglio di materiale sciolto, in prevalenza pietrisco che, come il dorso di una mano con le dita aperte, affonda e si protende nello specchio lacustre. È un ventaglio ampio quasi duecento metri. Il suo avanzare nell’acqua ha creato una strozzatura alla forma del lago che, visto dall’alto, ha assunto la forma di un 8 che giustifica il plurale Laghetti.

Provo a stimare la profondità massima di quelle acque, raggiunta presso la loro estremità orientale, a ridosso del corpo di frana. Il livello ora è prossimo al suo massimo. Calcolo approssimativamente anche l’ordine di grandezza del volume d’acqua. Quando l’ammasso di detriti del Masareit cederà, un cubo liquido di quasi trenta metri di lato si abbatterà sulla Timau del XVIII secolo, radunata di fronte al Fontanone, proprio sotto la ripida discesa di quella potenziale massa d’acqua e detriti.

Il cielo adesso è privo di quella limpidezza alla quale la mattinata appena trascorsa mi aveva abituato. Decido di tornare in fretta a Timau, verso le sue case ancora intatte e i suoi abitanti. Lungo il ripido tragitto di ritorno non riesco ad evitare la pioggia che, col passare dei minuti, aumenta d’intensità. Entro in casa ormai fradicio, accolto con accorata sollecitudine da chi, dalla sera prima, mi ospita. «Siete stato fortunato! - mi spiegano in un italiano misto a parole arcaiche dall’inconfondibile suono germanico, porgendomi una ruvida pezza di stoffa calda – Siete arrivato nell’unico giorno di sereno dopo un mese di pioggia ininterrotta». «Forse - mi scoprii a pensare – la tregua era già finita».

D’improvviso mi rendo conto che la sera prima, in tutto questo turbinio di impressioni, sensazioni e pensieri, fra- stornato dal viaggio temporale (il mio era il quarto del genere al mondo, ma l’unico che avesse cercato di fare superare le barriere del tempo a un essere umano, il quale… non avrebbe potuto nemmeno confermare la riuscita dell’esperimento se non lasciando qualcosa di scritto per i posteri), coinvolto emotivamente in un

disegno di cui ancora non riesco a prevedere gli sviluppi, esaltato da un’esperienza che considero ai limiti dell’incredibile, ho scordato una cosa essenziale che ora chiede risposta. Possibilmente rapida.

«Che giorno è?» domando allora ai presenti in modo concitato, mentre il mio pensiero sta ancora sorvolando il doppio lago in piena. Uno specchio d’acqua che in questo momento mi appare sotto le sembianze di una bomba a orologeria il cui conto alla rovescia dispone ormai di soli numeri a una cifra.

«Il giorno? Non saprei… - risponde l’anziano padre – Il decimo mese mi sembra, con la Luna che raggiungerà il suo quarto crescente proprio questa notte. Di certo conosco l’anno: 1729». È una parziale conferma, ma mi occorre sapere di più. Fuori il rumore della pioggia è diventato un rombo co- stante. La tregua sembra davvero finita. Mi chiedo quanto tempo sarebbe ancora trascorso nell’attesa dell’istante della tragedia. Ora comincio a rischiare anch’io, assieme a tutti loro. Con la differenza che sono l’unico, in tutto il paese, a saperlo.

«Il giorno 28 - aggiunge il figlio maggiore, tornato da poco dalle terre oltre il Passo, interrompendo un lungo minuto di silenzio che a me è parso interminabile – oggi è la sera del 28 ottobre», completa la frase cercando di sovrastare il rumore della pioggia battente che inizia a filtrare tra le sconnessioni del tetto. Chiudo gli occhi piano, rileggendo a memoria la cronaca del tempo. Calcolo che mi restano – ci restano – solo poche ore, una manciata al massimo, per evitare l’ecatombe e con essa l’estinzione di un intero paese con tutti i suoi abitanti. Occorre agire, ma con rapidità.

Devo inventare qualcosa che convinca quei timavesi del XVIII secolo ad abbandonare le loro case. Nella notte, sotto la pioggia e al buio, attraversando le acque del Torrente Bût e spostandosi sul lato opposto del fiume, in condizioni sopraelevate e sicure. Devo farli uscire da quelle che in questo momento loro considerano l’unico ricovero sicuro a tutela dello scatenarsi degli elementi. Convincerli è un imperativo. Ma come?

L’idea arriva improvvisa, devastante nella sua concezione ma capace molto probabilmente di fare muovere quella massa di persone come un corpo unico, verso la salvezza. Calcolo i tempi dell’azione. I miei occhi misurano gli spazi della grande stanza a pianoterra illuminati dalle tenui fiamme del focolare. Dopo cena l’intera famiglia è raccolta intorno al fuoco parlando sconsolata dei danni prodotti sui loro campi da quell’interminabile stagione di piogge. Io, intanto, sosto pensoso in disparte.

Lotti, la loro figlia più piccola – nemmeno quattro anni – è seduta in silenzio su un piccolo sgabello a qualche metro da me. Giocherella con un fagiolo secco e ogni tanto si ferma assorta ad osservare una goccia che cade dal soffitto e rimbalza sul pavimento, al centro di una pozza che da qualche minuto si va allargando.

Raggiungo lentamente la bimba, mi chino verso di lei quasi a condividere i suoi stessi interessi, poi all’improvviso accelero i movimenti. La raccolgo rapidamente da terra e, urlando frasi incomprensibili, mi precipito verso l’uscita, scavalcando fuoco, sedie, un mucchio di legna, e poi di corsa all’aperto, inciampando in pale e rastrelli che per poco non vanificano il mio piano, tanto incredibile quanto audace.

Ho in tasca una potente torcia a pile del XXI secolo. Correndo la accendo, mentre con l’altra mano assesto la presa del mio piccolo fagotto di stracci e paura, impietrito dal precipitare improvviso degli eventi. Continuo a correre e la luce abbagliante dei led azzurrini sciabola veloce sui muri di quelle povere case illuminando nel suo cono di luce un altro muro, quello della pioggia scrosciante.

Attratte dalle urla che mi guardo bene dall’interrompere, le case schiudono le proprie imposte, una dopo l’altra, sempre più numerose. La mia luce intercetta e colpisce sguardi indagatori riempiendo le abitazioni di terrore e domande ancora prive di risposta. I familiari di Lotti intanto, realizzato il rapimento, si precipitano disperati all’inseguimento del forestiero che il giorno prima avevano così generosamente ospitato. Quello stesso forestiero ora, con una diabolica fiamma azzurra che gli scaturisce dalla mano, ha sottratto loro quanto hanno di più caro.

«Il diavolo ha rapito Lotti! Il diavolo ha rapito Lotti!» gridano, e nell’inseguimento battono forsennati con i pugni le finestre e gli usci di parenti e amici chiamando- li a raccolta. Ben presto la gran parte del paese si scuote ed è coinvolta nell’imprevista battuta di caccia all’uomo, anzi al diavolo. La vita di una bimba in grave pericolo, una bimba indifesa che appartiene alla comunità, è capace di compattare un gruppo di coscienze, spingendole a superare paure e terrori atavici. Anche la paura del diavolo.

Il mio correre attraverso le strade del paese sta ora portando la massa inferocita dei suoi abitanti verso il fiume, in quell’unico punto dove il guado è favorito da un rudimentale ponte di tronchi che ho notato il giorno prima arrivando a Timau. La luce della torcia illumina il mio percorso tra la pioggia battente e, al tempo stesso – come vado sperando con tutta l’intensità di cui sono capace – segnala costantemente la nostra posizione agli inseguitori.

Il ponte è ancora intatto anche se ormai comincia ad essere lambito dal fiume in piena, rinvigorito dal vertiginoso aumento di portata della sorgente del Fontanone. A monte invece, in zona Laghetti, le acque continuano a bloccarsi contro la diga naturale della frana del Masareit e il lago – lo percepisco – sta aumentando il proprio livello già pericolosamente alto.

Passiamo il ponte ora, io e Lotti, rallentando per un istante la folle corsa. Ogni volta che sento avvicinarsi quelli che sono diventati i miei più irriducibili avversari, rivolgo la torcia verso di loro e guadagno secondi preziosi. È già trascorsa la mezzanotte. Mi coglie un brivido mentre realizzo che noi tutti – io e Lotti assieme alle genti di questo sperduto segmento di valle, la vallata stessa, le acque che la stanno martoriando, il lago che continua da settimane a gonfiarsi e ora è pronto ad esplodere, l’accumulo di frana che si prepara a gettare la spugna – tutti noi e il territorio che ci raccoglie ed ospita, abbiamo fatto il nostro ingresso nel fatidico 29 ottobre 1729. Siamo tutti inconsapevolmente pronti per essere consegnati alla storia. Per il momento sono l’unico a saperlo e il peso di questa certezza sta diventando insopportabile.

Intanto siamo giunti, inseguitori ed inseguiti, sull’altra sponda del fiume. Non basta, devo riuscire a trascinarli più in alto, su un luogo elevato, al riparo dall’onda di piena.

Quando si scatenerà la sua forza devastante? La notte è ancora lunga e non so quanto riuscirò a resistere prima che mi raggiungano e mi annientino con il loro furore. Scelgo di costeggiare la sponda destra del Rio Seleit gonfio d’acqua.

Lo risalgo di corsa per un paio di minuti, poi mi fermo stremato. Con un braccio continuo a tenere Lotti stretta a me, e intanto la mano libera manovra la torcia che cerca di illuminarmi il percorso. La sua luce sta perdendo rapidamente intensità. Accarezzo Lotti tremante e fradicia che nel chiarore oscillante delle ultime sciabolate di luce mi scorge un sorriso e una lacrima. Ma forse è solo pioggia. Le grida degli inseguitori ora sono vicinissime. Ci siamo!

Mi rendo conto che tutti sono finalmente al sicuro. Loro. Quanto a me non posso dire altrettanto, ma questo sta diventando un pensiero secondario. Mi domando se il mio sacrificio porterà la salvezza per quel- la comunità di cui anch’io mi sento parte, diretta connessione tra futuro e passato. Dopo avermi massacrato ed essersi ripresi la cara Lotti faranno rientro alle loro abitazioni. Accadrà presto, lo so. Vorranno evitare che le acque del Bût salgano a tal punto da trascinare via il ponte bloccando il ritorno in paese. Sento le loro grida vicinissime. La torcia nel frattempo s’è spenta.

Nelle dense nuvole del cielo notturno ora si apre uno squarcio improvviso. Smette di piovere, mentre il disco parziale della Luna illumina la vallata. Mi sono tutti di fronte adesso. Immobili e urlanti. I primi del gruppo potrebbero toccarmi se solo abbassassero i forconi. Ma per loro sono pur sempre il diavolo.

Grido allora con quanta aria mi resta ancora in corpo «Siete salvi! Non capite… Siete salvi!». Lotti adesso corre verso i genitori e i fratelli, e loro verso di lei. Intuisco che l’abbraccio liberatorio sta solo rinviando la resa dei conti. «Siete salvi!… Siete salvi!» ricomincio a gridare, di nuovo, sperando nel tempismo della Natura e delle sue catastrofiche manifestazioni, confidando in cuor mio nell’aiuto della Provvidenza verso un povero diavolo che sta solo cercando il bene altrui. E questa volta, effettivamente, vengo ascoltato.

Un boato sordo e persistente riempie la vallata. Differente da quello dei periodici, rari terremoti. Differente da quello delle numerose ricorrenti slavine che ogni primavera si staccano a centinaia dalle ripide pareti della Creta. Differente da ogni altro rumore conosciuto. Proviene da ovest, oltre Timau, al di là del Fontanone. Tutti si voltano, all’unisono, come un unico corpo che si volge all’indietro sollecitato da una sensazione indefinita e agghiacciante. Tutti richiamati da quest’altro improvviso mistero capace di rendere colma la loro notte da incubo.

Nessuno per ora è in grado di comprendere. Ascoltano muti, cercando indizi nella direzione di quel rombo dalle basse frequenze che scende la valle sulla quale ora insiste stabile la luce soffusa della Luna. Sono l’unico a comprendere.

Crollo in ginocchio e mentalmente ringrazio il Cielo. Riesco a ‘vedere’, prima di tutti loro, quanto sta per accadere giù nella vallata. La diga della frana ha ceduto di schianto.

La massa liquida, rinvigorita dal fango, ghiaie e pietrame raccolti nella ripida discesa verso Timau si sta riversando sul paese, cento metri più in basso, e ne fa distruzione e scempio.

Timau, la vecchia Timau, all’improvviso non esiste più. È spianata, distrutta e sommersa assieme a chi non ha potuto accogliere l’invito a combattere il diavolo, a strappargli la preda nel tentativo di riprendersi la cara piccola Lotti.

Intuisco le espressioni dei visi di quel- la moltitudine che mi sta di fronte e che ora, attonita, mi volge le spalle. Laggiù nel fondovalle qualcosa di catastrofico attrae l’attenzione di tutti. Un mare di fango liquido e denso ancora in movimento è sinistramente rischiarato da una Luna capace di restituire solo immagini in bianco e nero che ne amplificano la spettralità.

Intuisco i pensieri di ognuno, di tutti loro. La disperazione che li pervade la riesco a leggere nelle loro spalle divenute all’improvviso curve e pesanti, nelle grida strozzate di chi, comprendendo prima degli altri, sta volando col pensiero dentro quel fango alla ricerca dei suoi anziani e dei bimbi più piccoli, lasciati nelle abitazioni ad attendere il loro ritorno.

C’è chi non aveva altro che un piccolo campo, delle galline, un maiale e una stanza affacciata sulla sorgente del Fontanone. Ora chiede solo di potersi svegliare perché sa, è convinto, che anche questo è solo uno dei suoi brutti sogni. Forse il più terribile. È invece la realtà che sta sostando sulla porta della Storia.

Percepisco in ognuno di loro impotenza, disperazione e rabbia. Rabbia contro il cielo, la pioggia incessante… e il diavolo. Sì, anche e soprattutto contro di me.

In qualche modo sento in tutti la convinzione personale che la loro vittoria contro chi, in modo così indegno, ha voluto ferire la loro comunità, ha scatenato una violenta ritorsione contro il loro paese, con la precisa volontà di annientarne fisicamente gli abitanti cancellandolo per sempre dalle mappe.

Tra breve i sentimenti di impotenza e di disperazione si sarebbero fatti da parte lasciando campo libero alla sola rabbia, quella più feroce. Conosco bene i miei simili e devo dire che i loro comportamenti non sono mutati attraverso i secoli. Nonostante tutto ho fatto male i miei calcoli.

O meglio, la strategia che ho d’istinto messo in atto in una notte di tragedia, ha ottenuto l’obiettivo sperato: i due terzi al- meno degli abitanti di Timau, le sue forze vitali – produttive e riproduttive – sono salve. Solo se guardo la situazione dalla prospettiva opposta, la mia, posso considerarla un fallimento.

Ma non sono qui, a oltre tre secoli dal ‘mio’ tempo, per pensare al futuro. Quel- lo l’ho già avuto. Quest’ultimo pensiero mi rincuora, dandomi energie nuove e insperate. Ne avrò bisogno per sopravvive- re alla prossima devastante onda d’urto. Quella che tra non molto si abbatterà su di me, alimentata dalla rabbia dell’esasperazione e guidata dalla caccia al malefico.

Devo, ancora una volta, anticipare gli eventi. Tra poco quella massa umana sarà nuovamente un unico organismo compatto mosso da un solo credo: combattermi e distruggermi. Ad ogni costo. Non avendo io poteri né diabolici né soprannaturali facilmente posso prevederne l’esito. A meno che non riesca a sfruttare quegli ultimi istanti di vantaggio che mi vengo- no concessi.

In silenzio, scorticandomi braccia e gambe, salgo il versante solcato dal Rio Seleit. Ogni tanto mi volto verso i miei potenziali inseguitori. Continuo a intravvedere un’infinità di sagome scure ancora rivolte verso i luoghi del disastro. Il tempo per loro si è fermato, per me invece già corre vorticosamente. Lo stordimento che ha pervaso ogni

essere di quella massa disperata alla vi- sta dell’immane tragedia sta per lasciare il posto alla consapevolezza: per quanto è accaduto esiste un mandante che al tempo stesso è anche esecutore: il diavolo in persona. Questo pensiero, come un’onda di piena, attraversa in tempi brevissimi ognuno di loro, governandone le mosse future. Intanto, dalla nuova posizione che nel frattempo ho raggiunto, alta dentro il bosco, le grida che mi arrivano raccontano di seri pericoli che incombono sul mio futuro.

La forza della disperazione, unita all’istinto di sopravvivenza, mi trasmette energia nuova che mi porta – non so nemmeno io come – a raggiungere i ripiani di Pramosio. I miei inseguitori intanto si sono separati in gruppi che, con l’aiuto di torce fumanti, perlustrano il modo siste- matico il bosco che mi ha così miracolosamente inghiottito e celato. Da Pramosio mi diventa facile salire poi fino al vicino passo omonimo. Da lì, con l’alba ormai prossima, valico lo spartiacque e scendo lungo la valle del Rio Arsnitz che giù in fondo conduce al Fiume Gail e alla sua larga vallata dove, probabilmente, sarò al sicuro. Ecco, col sole ormai alto, posso dire di essere riuscito a seminarli, forse definitivamente.

La mia esistenza è ricominciata in questa nuova e larga valle, al riparo da sorprese ed imprevisti. Io, originario di Timau, costretto all’esilio forzato dopo avere salvato il paese dall’annientamento, ospitato come forestiero e, a distanza di un sol giorno, inseguito e cacciato come essenza stessa del male, ho finalmente trovato meritata sosta.

Col passare dei mesi, ripensando a quella notte, ho finito per realizzare che il mio viaggio nel tempo era stato la condizione essenziale affinché le vicende di Timau si svolgessero il quel preciso modo, evitando la catastrofe e propiziando il suo epilogo di salvezza. Mi stavo convincendo che quanto avevo letto – nel XXI secolo – nelle cronache di quel lontano 1729 si era verificato perché anch’io ero diventato un tassello di quella storia, il più importante e determinante. Per assurdo ero arrivato a farne parte dopo averne letto il resoconto, ma prima che quegli eventi accadessero.

Sono venuto a conoscenza che il curato del paese si è rifiutato di segnare sul registro parrocchiale i morti travolti dalla piena, quasi tutti anziani e bambini seppelliti sotto due metri di ghiaie e mai più ritrovati. Il rifiuto è basato sull’idea che i decessi sono stati opera del diavolo e come tali non devono ricevere menzione nei registri della Chiesa. Cito questo a giustificazione del fatto che tra due secoli i commentatori di questa tragica vicenda, in assenza di registrazioni di morte negli archivi relativi agli ultimi giorni di ottobre dell’Anno Domini 1729, riterranno che nella sciagura tutti gli abitanti si siano salvati.

La notizia della disgrazia si è diffusa istantaneamente ben oltre i confini della vallata carnica. Mi raccontano che, già a poche settimane di distanza da quel tragico 29 ottobre, Timau stava risorgendo. La stanno rapidamente ricostruendo in sinistra Bût, a poca distanza dal luogo in cui Lotti si è ricongiunta ai propri familiari. Lì dove io li ho trascinati, costringendoli a salvare se stessi e i propri discendenti, me stesso compreso! Sorrido ora, e sento di nuovo che sto riprendendo a vivere.

Era il 1910, anno di costruzione della Scuo- la Elementare di Timau, luogo di ritrovamento del manoscritto del XVIII sec. L’edificio stava appena nascendo. (Archivio Mauro Unfer).

Era il 1910, anno di costruzione della Scuola Elementare di Timau, luogo di ritrovamento del manoscritto del XVIII sec. L’edificio stava appena nascendo. (Archivio Mauro Unfer).

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La Scuola Elementare di Timau è stata completata. Il suo edificio bianco svetta e si impone all’attenzione in questa cartolina degli anni ‘20. È diventato uno degli elementi distintivi della comunità assieme alla Chiesa di Santa Gertrude. (Archivio Mauro Unfer).

Con questo pensiero termino la cronaca delle concitate ore che anticiparono e seguirono la grande alluvione del 1729, evento tragico entrato con violenza nella storia di Timau e dei suoi abitanti. Affiderò in segreto questo manoscritto ai miei discendenti – ho messo su famiglia nel frattempo – con la raccomandazione di tornare un giorno a Timau e di celarlo all’interno di un preciso edificio pubblico.

Quella Scuola Elementare che, so per certo, verrà costruita all’inizio del 1900. Tra meno di due secoli. Ai posteri, a chi troverà il manoscritto, la preghiera di rendere pubblici gli eventi di quella notte. La mia missione finisce qui. Devo cominciare a pensare al mio futuro e a quello dei miei figli, in quest’epoca alla quale sento ormai di appartenere.

1729

Nei giorni che seguirono la ‘grande alluvione’, salendo alla frana del Masareit per osservare e capire, guardando verso le rocce a strapiombo che anticipano la parete della Creta, ci fu chi riuscì a cogliere un particolare mai rilevato prima. Lassù, in alto, sull’ultima grande lastra verticale di roccia, si stagliava nitida la figura in rilievo di un’enorme pala con il manico rivolto verso l’alto.

Giurano tutti che nessuno aveva mai notato nulla del genere prima di quella tragica notte. Nel ricordo di quella tragedia, l’immaginario collettivo aveva inserito anche il diavolo come protagonista assoluto di ogni disgrazia. Il malefico era entrato a far parte di quell’indimenticabile esperienza e la sua figura era rimasta radicata agli eventi di quella notte.

Le leggende nascono da precisi segni che il trascorrere del tempo elabora e modella. Sono alimentate e rinvigorite dalle impressioni e dai ricordi di chi reinterpreta e spettacolarizza gli eventi.

Le leggende attingono dalla realtà e la ripropongono distorta come immagini riflesse da grandi, invisibili specchi con- cavi. Una leggenda sorta in quegli anni narra che il diavolo in persona, durante la notte tra il 28 e il 29 ottobre 1729, con un’enorme pala formò un profondo sol- co nell’ammasso della frana del Masareit, sbarramento del lago, con la ferma inten-ione di svuotarlo drammaticamente.

Aveva agito con l’invaso al massimo della capienza, certo che così facendo avrebbe raccolto a sé tutte le anime di un intero paese raccolto al riparo delle proprie abitazioni. Un paese che non si era lasciato intimorire e si era ripreso con l’audacia della disperazione la piccola Lotti, strappandola al diavolo che l’aveva rapita e al suo destino di vittima predestinata.

Continua la leggenda raccontando che quando, a svuotamento ultimato e a disastro concluso, il diavolo si accorse che il bottino previsto si era invece, quasi per intero, miracolosamente salvato, la rabbia fu tale e così potente che raccolse da terra la sua enorme pala e, ritto con i piedi caprini puntati sul corpo di frana, la scagliò con violenza contro la roccia di fronte prima di sparire sprofondando nuovamente negli inferi.

La pala del diavolo si incastrò su quella roccia a strapiombo e vi resterà per l’eternità. E lì è possibile tuttora osservarla, in memoria di quel lontano ottobre 1729 e a ricordo dello scampato annientamento del paese.

Da allora, ogni volta che la frana del Masareit riprende a muoversi, scivolando di qualche metro verso valle, a Timau si è certi che dipenda ancora dall’antica pressione di quegli zoccoli che il diavolo puntò con forza al suolo nel momento in cui rabbioso scagliava la sua gigantesca pala contro la roccia.

Alle genti di Timau quella pala impressa sulla parete rocciosa continuerà nei secoli a ricordare la ‘grande alluvione’ del 1729, lo scampato pericolo e la lotta col diavolo che in qualche modo, alla fine, li vide vincitori.

La pala, scagliata con rabbia quasi tre secoli fa sulla roccia di fronte ai Laghetti dal diavolo inferocito. Ricorda la vittoria delle genti di Timau sui poteri satanici.

La pala, scagliata con rabbia quasi tre secoli fa sulla roccia di fronte ai Laghetti dal diavolo inferocito. Ricorda la vittoria delle genti di Timau sui poteri satanici.

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